Come sta il post-nazionalismo?
Opinioni di pancia del perché continuiamo a cadere sempre nella stessa trappola.
Non è una novità che l’europa si stia nuovamente affezionando a un vecchio amico: il nazionalismo. Partiti nazionalisti stracolmi di orgoglio nazionale cavalcano sondaggi e opinioni un po’ ovunque, con casi evidenti e recenti come l’austriaco FPO e il polacco PiS (e la nostra cara Lega Nord, che però spero rimanga il sogno di un pazzo). Spesso lo sentiamo chiamare in modi diversi ed eterogenei, molto di moda è chiamarli “partiti populisti”, ma nessuno, o pochi, che si azzardino a chiamarlo con il suo vero nome.
Il motivo di tale reticenza è piuttosto semplice: l’ultima volta che è successo non è andata troppo bene (specialmente quando Austria e Polonia sono coinvolte). Ma non chiamare le cose con il loro nome non risolve certo il problema, ne impedisce che le cose evolvano verso le stesse spiacevoli conseguenze, se così è il loro destino. Alla fine, la cosa crea solo inutile confusione e non permette di analizzare bene il problema.
Prima, infatti, è bene dimenticarsi di tutti i connotati negativi e positivi che la storia ha disegnato nel nazionalismo e fare un passo indietro per guardare il fenomeno nella sua interezza.
Il Nazionalismo in (molto) breve
La cosa che sorprende l’uomo moderno quando si parla di Nazionalismo è la sua incredibile modernità. Esso sembra infatti un qualcosa di innato, quasi scontato nel modo di vivere lo stato, la politica e le interazioni sociali. Fa specie sapere che sia un termine e un concetto nato nemmeno 200 anni fa.
Sebbene la parola nationalismus sia stata scritta per la prima volta nel 1770 dal filosofo tedesco J.G. Herder, rimase per lo più un’elucubrazione filosofico-accademica, quasi utopica, fino alla restaurazione post-napoleonica. Prima, infatti, il concetto di “stato” verteva per lo più sulla continuità dinastica: gli stati traevano la loro legittimazione dall'autorità (spesso di origine divina) del proprio regnante.
Così è stato per millenni. Ciò non vuol dire che non ci fosse il concetto di popolo, di patria e patriottismo. Si pensava solo che ciò non fosse sufficiente a formare uno Stato. Quello che il nazionalismo introdusse, e che in molti danno per scontato, è che ci sia il diritto alla nazione, intesa come stato formato da una comunità “depositaria di valori tipici e consolidati del patrimonio culturale e spirituale di un popolo o etnia”. Ciò trae origine dal retaggio istintivo che ci spinge a formare comunità per affinità di nascita, sangue e cultura in gerarchie via via crescenti in una scala che va da famiglie e villaggi a etnie, popoli, razze e così via.
Altro presupposto importante per il nazionalismo è la scomparsa di ogni forma di potere sovra-nazionale. All'epoca della sua nascita, tale entità era rappresentata dall’Impero inteso come stato plurinazionale (posto preso oggi probabilmente dall’Unione Europea). Il potere sovra-nazionale è la negazione stessa del concetto di nazione, e per tale motivo nemico principale. La sovra-nazione, deve avere qualche forma di potere superiore alla volontà della nazione sottostante e ciò è sacrilego per i concetti nazionalisti per cui il popolo nazionale è l’unico a poter aver giurisdizione su se.
I problemi del nazionalismo
Le nazioni sono costrutti artificiali i cui confini sono tracciati dal sangue delle guerre passate. — A. C. Grayling
La forza del nazionalismo fa leva su aspetti romantici e di facile comprensione. Chiunque ha chiaro il concetto di affinità. Esso è quello che, per esempio, ci fa avvertire molto più profondamente la scomparsa di un familiare, rispetto a quella di un familiare di un amico, di un connazionale o di uno sconosciuto in Namibia. Questo meccanismo è innato e parla direttamente a quelle zone del cervello che ci portiamo avanti da milioni di anni (dal punto di vista evoluzionistico, la morte di un “affine” implica la scomparsa di qualcuno che condivide una maggior parte del nostro patrimonio genetico).
Il problema tuttavia è chiedersi se questo sia sufficiente a legittimare uno Stato. Storicamente, nella lista gerarchica di “affinità” l’umanità ha deciso di tracciare un confine più o meno arbitrario fra “etnia” e “popolo” e dichiarare che tutto ciò che essa comprende è sufficiente a dare legittimità ad uno stato. Ma è così? Non esattamente: il confine su cui tracciamo la nazione è arbitrario come la volontà del popolo stesso e nei momenti di difficoltà esso perde significato del tutto.
Più aumenta la difficoltà di una nazione, più la linea di difesa arretra e “il sentimento nazionale” si restringe a difendere la regione, la provincia, la città e la famiglia. Non è un caso che più le pressioni esterne in Europa aumentano, sotto forma di crisi finanziarie e incremento di flussi migratori, più le sue nazioni tendono a frammentarsi sotto pressioni separatiste e isolazioniste.
E il post-nazionalismo?
Ci siamo illusi per anni di aver superato il nazionalismo e ora ci accorgiamo che non è mai stato così. Lo abbiamo sostituito con una sua versione edulcorata priva delle componenti xenofobe e razziste, gli abbiamo cambiato nome e fattezze ma alla fine non lo abbiamo mai lasciato.
Il problema è che non si può abbandonare il nazionalismo finché lo stato è in mano alla nazione (o almeno alla sua forma storica). E non si può fare altrimenti fino a quando non si diffonderà un’idea nuova con cui sostituirlo.
Ma quale altra idea? Difficile dirlo. Al momento, la risposta al nazionalismo più becero e primordiale è stata la proposta di un nazionalismo europeo, il che è quantomeno ironico.
Attualmente l’Europa è scossa da singoli stati (e spesso le singole comunità all'interno dei singoli stati)che cercano di smembrare la natura stessa dell’Unione in un catastrofico “ognuno per sé, si salvi chi può”. Da questo punto di vista, cercare di radunare lo spirito patriottico che accomuna la cultura europea tutta è sicuramente un percorso vincente, un tentativo di riportare l’asticella dell’affinità un po’ più avanti. Il concetto è semplice: siamo tutti Europei e abbiamo mille anni di storia comune, c’è più che spazio sufficiente per catalizzare l’entusiasmo e l’attenzione della popolazione prima che il ritorno agli stati nazionali indebolisca definitivamente il nostro continente.
Ma c’è un problema di fondo. Ogni volta che facciamo appello al nazionalismo, ogni volta che mettiamo l’accento sulle similitudini che ci accomunano, non facciamo altro che amplificare ed evidenziare anche le differenze con “gli altri”. Non si può fare altrimenti, non posso spiegare quanto sia bello essere rotondi senza puntare l’attenzione sull'essere quadrati.
In parole povere, il nazionalismo europeo, nelle sue nobili intenzioni di evitare i nazionalismi dei singoli stati continua a tracciare solchi, continua a creare un “nemico” in tutto ciò che è esterno.
Einstein diceva che il nazionalismo era “la malattia infantile dell’umanità”, sottintendendo che sarebbe passata. Ma la convalescenza è ancora in corso e siamo sempre più prossimi ad una ricaduta.
Cosa ci aspetta nel vero post-nazionalismo non lo so. Vorrei che prevalesse la consapevolezza di essere parte dell’umanità tutta. Vorrei che la smettessimo di parlare di territori come se fosse qualcosa su cui accampare diritto, cosa che appare estremamente ridicola se guardiamo al nostro pianeta su scala universale. Sarà la mia passione con lo spazio e le sue meraviglie a mettere la mia asticella dell’affinità talmente in alto da contenere tutto il genere umano. Da quest’altezza tutte queste discussioni sembrano di una spaventosa inutilità.
Comunque, mi rendo conto che la cosa è ancora troppo idealista, un espressione di sentimenti troppo astratti per poter essere alla base della legittimazione di uno stato (o di qualunque altra forma decideremo di darci in futuro). Una elucubrazione filosofica e utopica, come forse appariva ad Herder il suo nationalismus nel 1770.