Il fondamento culturale dell’europeismo
A forza di parlare di tecnicismi e razionalità ci siamo dimenticati un pezzo importante: i valori condivisi e l’aspetto culturale.
Sarà successo anche a voi di assistere alla discussione fra un europeista e qualche nazionalista della domenica. Se sì, sapete come funziona: il nazionalista dice qualcosa di falso o capzioso (o vero ma superficiale) e l’europeista ribatte citando dati e valutazioni di carattere pragmatico. A volte si parla dei benefici economici della permanenza contrapposti alle sciagure che si abbattono al di fuori, a volte si precisano i regolamenti, a volte si fa apologia dei meccanismi decisionali. Insomma, si è pratici, puntuali e razionali.
Ecco. Questo non funziona e non deve funzionare e non funzionerà.
Per capire il problema bisogna prima capire che la contrapposizione è fra una battaglia culturale e una formale. Da una parte c’è il nazionalismo: un area politica che fa una battaglia prettamente culturale. Certo, è una cultura abietta e raccapricciante, ma è una politica che porta sul tavolo valori forti: il sangue, i valori comuni, l’identità. Dall’altra abbiamo una politica puramente razionale. Perfetta nella forma ma che tuttavia non solleva nessun tema emotivo.
A quel punto è difficile battere un tema profondo come l’identità nazionale semplicemente tessendo le lodi dei tecnicismi di un trattato internazionale.
Tale problema lo sollevai già ai tempi del referendum della Brexit quando la campagna del Remain (prima) e il movimento di opposizione (poi) si concentrava (e si concentra) quasi esclusivamente sui danni economici della Brexit senza mai creare una narrazione di forte impatto culturale.
E sia chiaro, ce n’erano di narrazioni. Per quanto mi riguarda, la Brexit sarebbe sbagliata, nonché un delitto, anche se fosse stata un toccasana per l’economia. Perché la mia battaglia europea è prima di tutto un’affezione culturale di libertà individuali e di identità personale. Il fatto che garantisca anche un enorme benessere economico aggiunto è un plus ma la base resta e deve restare culturale.
A differenza di una discussione accademica, infatti, la politica è costituita da due elementi separati ma interconnessi: la parte culturale ed emotiva e la parte tecnica e razionale. I movimenti populisti degli ultimi anni professano che la prima sia e debba essere l’unico motore della decisione pubblica. A questa visione dispotica non possiamo contrapporre il suo opposto ovvero che la razionalità e il buonsenso siano sufficienti ed ingredienti unici della decisione sociale. L’idea che ripetere ciò che è incontrovertibilmente e tecnicamente giusto, prima o poi, attecchisca per miracolo nella mente di tutti gli strati sociali è un’illusione altrettanto utopica.
Bisogna invece saper gestire entrambi i caratteri, saper mescolare cultura e razionalità e non limitarsi a propagandare la “cultura della razionalità”. Perché a fare così, prima o poi, ci si scotta sul serio.
Quindi vorrei incoraggiare lo sviluppo di una narrazione più profonda a partire dal tema dell’europeismo (ma il discorso regge in generale). Ci sono valori più profondi che legano la storia del popolo europeo, ognuno ne assorbe dei frammenti e li elabora a modo suo. Quali sono le vostre motivazioni culturali al progetto europeo? Quali sono i vostri valori condivisi?
Aggiornamento (27 Aprile 2022): Continuo a pensare a questa roba perché continuo a non vedere nulla che vada in questa direzione. Mi sembra che, purtroppo, ci sia l’idea che il contrario del “populismo” sia solo il “tecnicismo” che pretende che per ogni decisione pubblica esista una sola conseguenza inevitabile e che tutte le opzioni siano quindi false. Credo che lo sintetizzi magnificamente Nadia Urbinati quando parla di concezione epistemica della democrazia, ovvero l’illusione di trasformare “in oggetto di conoscenza (vero/falso) ciò che invece è oggetto di valutazione (preferibile/non preferibile).” Continuo a pensare che perseguire sia un rischio che non ci è più concesso.
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