“Matteo ha schiacciato una lucertola e Davide ha pianto”
Racconto di un'assurda storia d'infanzia e di come ho imparato ad apprezzarla grazie a Ierocle.
In uno dei miei primissimi ricordi, mi trovo nel cortile della mia scuola in una mattina di sole con le maestre e i miei compagni della prima elementare. Su un marciapiede noto una lucertola immobile. Forse è ferita, o forse è già morta e non lo sapevo (i ricordi d’infanzia sono incerti per loro natura). Rimango a guardarla affascinato: “C’è una lucertola!” dico ai miei compagni con quell’entusiasmo per piccole cose tipico dei 6 anni.
Non ricordo cosa mi aspettassi, se volessi aiutarla o se volessi solo guardarla. Quello che ricordo bene, però, è che prima che potessi fare qualsiasi cosa, unimmo compagno di classe di nome Matteo si avvicina e schiaccia con il piede la lucertola (l’immagine della lucertola sviscerata è forse l’immagine più nitida di tutta la faccenda). Io, da parte mia, piango inconsolabile a lungo attirando l’attenzione delle maestre a cui racconto, fra i singhiozzi, l’accaduto.
Questa storiella sarebbe solo un racconto come tanti fra i ricordi d’infanzia di molti. Quello che rende la faccenda ai limiti del surreale è quello che successe subito dopo.
La frase ”Matteo ha schiacciato una lucertola e Davide ha pianto” diventò, per qualche inspiegabile ragione, la frase di esempio su cui io e tutti i miei compagni imparammo a scrivere per il resto dell’anno. Era la frase scritta in stampatello per intere pagine e ripetuta e letta ad alta voce in classe. Da qualche parte a casa dei miei credo ci siano ancora vecchi quaderni pieni di disegni infantili con un ragazzino dalle copiose lacrime da un lato, un altro ragazzino sorridente dall’altro e in mezzo una lucertola da cui fuoriescono linee di pastelli rossi.
All’epoca odiai ogni attimo di quel continuo memento della mia fragilità. Mi faceva infuriare, mi imbarazzava, mi logorava. Uno psicologo forse potrebbe trovare in questo l’origine inconscia della mia nota difficoltà nell’esternare emozioni. Meglio tenersi le lacrime dentro che rischiare un’umiliazione pubblica del genere ancora una volta.
Poi, però, quello stesso evento assunse anche una nota positiva e con gli anni divenne un elemento di orgoglio. Come tutte le cose che nel momento ci sembrano tremende, possono dare luce e forza a qualcosa di positivo (ed è il motivo per cui sono intimamente restio ad accettare modelli di società iperprotettivi, ma questa patata bollente l’affrontiamo un’altra volta). Quella “vergogna” si trasformò nel simbolo della mia “differenza” e, in un certo senso, la storia delle origini della mia etica in formazione. Quel gesto d’istintiva, plateale e gigantesca compassione per una delle centinaia di migliaia di comuni lucertole del mondo descriveva meglio di qualunque altro l’etica e la filosofia di vita che tentavo di mettere in pratica.
Poi, per tanti anni, quel ricordo andò nel fondo e non ci pensai più.
Fino a quando un mese fa mi trovai a leggere alcuni frammenti degli Elementi di etica di Ierocle, filosofo stoico a cavallo fra il primo e secondo secolo dopo Cristo.
Per farla breve, il fondamento dell’opera si basa sul concetto della percezione di sé come «facoltà iniziale e dominante» di tutti gli esseri viventi. Degli uomini, certo, ma anche degli animali.
Una delle grande capacità umane, la più nobile, consiste nell’allargare questo sentimento di “amore per sé stessi” verso l’esterno. È il concetto della oikeiosis (οἰκείωσις), parola spesso tradotta con appropiazione o familiarizzazione ma il cui significato appare più chiaro se si pensa che la radice oikos, abitazione, è la stessa dietro parole come economia ed ecologia.
Ierocle lo spiegava con un immagine di cerchi concentrici. Nasciamo tutti con il primo cerchio: quello per l’amore e la cura di noi stessi. Poi, però crescendo ci appropriamo degli altri cerchi. Prima familiarizziamo con i nostri genitori e cominciamo a provare per loro la stesso attaccamento (o amore) che proviamo per noi stessi. Poi, facciamo lo stesso per la nostra famiglia allargata e per i nostri amici. Ma perché fermarsi qui? L’idea di Ierocle è che l’uomo virtuoso deve continuamente tentare di allargare questi cerchi fino a considerare ogni essere umano con la stesso senso di attaccamento e amore che proviamo per noi stessi.
Molte interpretazioni moderne, però aggiungono un ulteriore cerchio: quello di tutti gli esseri viventi. Siano essi gatti, cani, mucche o… Lucertole. C’è molta letteratura al riguardo, ma per ora vorrei tornare al punto dell’articolo.
Mentre leggevo di cerchi e di affezione per tutti gli esseri viventi non ho potuto fare a meno di ripensare a quel bambino di sei anni di tanti anni fa in lacrime per una lucertola. Pensavo che non sarebbe stato difficile spiegargli che provare attaccamento per una lucertola qualsiasi fosse l’espressione più alta di virtù che un filosofo greco-romano del primo secolo riuscisse a immaginare. E io, da parte mia, sono stato un po’ più orgoglioso del bambino che ero (non che fosse merito mio; se mai, il merito va ai miei genitori).
Ora, arrivato a questo punto, non so bene come concludere. A dire il vero non so bene nemmeno perché ho cominciato a raccontare tutta questa storia. So solo che scrivendo, a 27 anni di distanza, quella stessa frase come titolo di questo articolo, ho avuto la sensazione di aver chiuso come merita quello strano capitolo della mia vita.